lunedì 26 marzo 2012

.vernissact.
di Andrea Parisi
impegnato in un dialogo con “Senza Peso” di Federico Fronterré,
grato per il confronto con David Chance Fragale e Andrea Riboni

Nel 1964, a 32 anni, Glenn Gould decide di eclissare se stesso e il suo pianoforte da quel proscenio che, ormai, percepiva come un diaframma invalicabile, un intoppo inserito maldestramente nel delicato e mutevole percorso di contemplazione e trasmissione dell’opera musicale. Libero dal contatto diretto con il pubblico, si dedica a stregonerie tecnologiche, tagliando e cucendo segmenti di nastro magnetico nel chiuso della sala montaggio di uno studio di registrazione, alla ricerca di artifici funzionali alla sua idea di “narrazione”.


Vernissact indirizza le scarpe del pellegrino volenteroso sulla prosecuzione di questo sentiero, che conduce alla scoperta di una discografia per voce solista non più intesa come momento-ombra, stazione di transito in vista del “poi” nobile dell’esibizione, bensì come terreno di discussione, occasione per un diverso modo di comporre.


 L’intento è quello di favorire l'esperienza di un incontro individuale con una musica pensata, fin dalla sua origine, lontana dal gesto esibito in pubblico e assemblata considerando l'approccio tattile a uno strumento dal forte immaginario cinetico, quale è la chitarra, come principio, scintilla che accende l’esca di un processo creativo di impronta plastica. Esso rifiuta l'obbligo della replica nei luoghi della performance per trovare un senso, non solo compiuto ma anche definitivo, nella dimensione fonografica che disgrega gli attimi del “suonare” e li ricompone su di una nuova linea significante.

Il gesto di Horovitz si trasforma in quello di Pollock e genera una musica materica, densa delle stratificazioni ritenute necessarie, che procede da un’unica sorgente acustica naturale ma viene raccontata tramite montaggi “cinematografici”. Cristallizzata su un’ideale tela di silicio predilige, in luogo della luccicante perfezione tecnica del suono, un ambiente più settico, ricco di giustapposizioni e suture, in nome di una drammaturgia dell’urgenza.


Ritrovare quella cinesi rinnegata sulle pareti di questa Specie di Spazio, incatenata “Senza Peso” negli scatti di Federico, ha reso particolarmente significativo l’allestimento di questa pesante, cementificata, anteprima. Si è trasformata, infatti, in una di quelle fortunate occasioni di dialogo che proiettano nuovi significati sulle opere e nei pensieri, e ci fanno sentire monadi privilegiate, sporadicamente provviste di porte e finestre.

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